L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (2a parte)

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Autore: Dott. Nicola Gentile

Vi sono vari approcci alla psicologia di comunità ed esperienze fatte da altri ricercatori;  di seguito ne viene descritto qualcuno.

Altri approcci di comunità

Oltre all’esperimento di Northfield, altre strutture psichiatriche hanno cercato di utilizzare metodiche innovative per curare i propri pazienti. Seguendo l’impostazione di Foresti e Vigorelli (Foresti & Vigorelli, 2012), individuiamo tre aree: quella inglese, quella statunitense, e quella francese.
Nell’area inglese quindi possiamo mettere come esperienza quella descritta in precedenza del Cassel Hospital di Tom Main e l’Henderson Hospital di Maxwell Jones .
Il setting del Cassel viene strutturato intorno a due spazi, uno per la psicoterapia individuale, fatta da medici in formazione analitica, e l’altra che riguarda la Comunità terapeutica, in cui si svolge un accudimento psicosociale detto anche “psychosocial nursing”. In un certo senso vi è una divisione tra il mondo esterno, con i ruoli sociali, ed il mondo interno delle fantasie. Questi due mondi vengono tenuti insieme dalla cultura dell’autoriflessione o “culture of inquiry”.

Un concetto centrale è quello di “milieu terapeutico” dove il paziente viene rilevato dal suo insoddisfacente ambiente sociale, e viene messo in un ambiente in cui ogni evento quotidiano viene usato a scopi terapeutici.
La psicoterapia si svolge in un setting di cinquanta minuti per due volte la settimana in una posizione vis-à-vis più che sul lettino. Main adotta anche iniziative originali per l’epoca come l’istituzione di Unità familiari che ospitano madre e bambino oppure un intera famiglia per focalizzarne i problemi relazionali. In seguito sviluppa tutta una rete di rapporti con medici di base, specialisti dell’infanzia e dell’adolescenza, divenendo anche risorsa per la comunità locale.

Cassel-new-building

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Attualmente il Cassel è un importante centro di trattamento, formazione e ricerca specializzato nei disturbi di personalità, riconosciuto a livello internazionale.
Foresti e Vigorelli definiscono l’approccio del Cassel Hospital come “modello sistemico psicoanalitico” da riassumersi nei seguenti cinque punti: articolazione di psicoterapia individuale e accudimento psicosociale (psychosocial nursing); la cultura dell’autoriflessione (culture of inquiry); organizzazione sistemica della comunità terapeutica che coinvolge e responsabilizza tutte le figure professionali; concetto di milieu terapeutico; ricerca di esito dei trattamenti per la valutazione di efficacia.
Negli stessi anni prende corpo in modo indipendente l’esperienza comunitaria sviluppata da Maxwell Jones all’Henderson Hospital. Questo psichiatra direttore di quest’ospedale dal 1946 al 1959 promuove il suo modello comunitario di stampo psicosociale. Poi cercherà di esportarlo anche in paesi diversi dall’Inghilterra, come la Scozia, gli Usa ed il Canada.

Egli vede come caratteristica saliente della comunità un sistema aperto con un assetto egualitario e democratico, in cui il trattamento non è responsabilità limitata allo staff medico, ma riguarda tutti i membri della comunità e quindi anche i pazienti. Si osservano i problemi che nascono nel “qui e ora” affrontando le tensioni in ambiente gruppale, e l’obiettivo terapeutico è l’inserimento dell’individuo nell’ambiente sociale e lavorativo all’esterno dell’ospedale, senza nessun altro intervento psicoterapeutico.
In effetti non è previsto un trattamento psicoterapico anche se Jones è interessato al modello dello psicodramma di Moreno, che invita più volte all’Henderson Hospital.
Gli ingredienti di questa metodologia sono in sostanza tre: il community meeting, lo staff review meeting, e la leaving learning situation.

Nelle riunioni di comunità che avvengono tutti i giorni, con pazienti ed operatori alla pari, (role blurring) si affronta ciò che è accaduto il giorno precedente e si analizza e discute qualsiasi problema si presenti. Quindi nel confronto con gli altri (reality confrontation) ognuno viene sollecitato a una partecipazione responsabile che oltre ad aumentare la stima di sé permette di apprendere quali percezioni e sentimenti stiano dietro le condotte degli altri.

Subito dopo avviene la riunione dello staff (staff review meeting) per discutere le interazioni che si sono verificate nell’incontro di comunità.
Infine c’è un punto fondamentale dell’approccio di Jones, cioè la living learning situation, che consiste nell’intervento di crisi, ogni volta che si profili la necessità che coinvolge sia operatori che utenti fino alla sua risoluzione.
I punti fondamentali del modello psicosociale dell’Henderson Hospital possono essere così riassunti: comunità come sistema aperto, con un assetto egualitario e democratico; comunicazione aperta staff/residenti; riunioni di responsabilizzazione e decisionalità condivisa (Community meeting e staff review meeting); interventi di crisi (living learning situation); attività di sottogruppi; definizione dei principi teorici di permissivismo, comunalismo, democraticità, confronto con la realtà.

Quest’ultimo punto deriva dal fatto che Jones sottopose nel 1950 la sua struttura ad un indagine di legittimazione da parte di un gruppo di sociologi guidati da Robert Rapaport.

“Da questa indagine emergono i principi su cui si fonda la vita comunitaria: permissivismo, comunalismo, democraticità, confronto con la realtà, che diventeranno capisaldi di numerose CT in Europa e negli USA per qualificare la terapeuticità comunitaria.” (Ivi, p. 36)

Emergono anche delle contraddizioni però: per prima cosa un conflitto all’interno dello staff tra due sottoculture, una tesa a raggiungere l’obiettivo di riabilitazione del paziente, l’altra che privilegia la conoscenza di sé attraverso il trattamento comunitario; un secondo aspetto riguarda l’importanza dell’aspetto transferale nel rapporto paziente-educatore, che pone la questione di un lavoro esplicitamente psicoterapico; infine il terzo punto riguarda il peso carismatico Jones.

Questo punto è fondamentale soprattutto quando Jones si trasferisce nel 1959 negli Stati Uniti ed i suoi successori affrontano un periodo di grave crisi. Cosa molto simile era successa anche al Cassel Hospital quando Tom Main si era ritirato dalla scena nel 1976.
Nonostante ciò, superato il periodo di crisi, l’Henderson Hospital è rimasto come figura di riferimento anche per molte comunità italiane vedi la comunità Il Porto e Reymond Gledhill. Di quest’ultima comunità il direttore sanitario è Aldo Lombardo che ne parla anche nel suo libro (Lombardo, 2004). Inoltre L’Henderson Hospital ha contribuito alla fondazione nel 1972 dell’Associazione internazionale delle comunità Terapeutiche (ATC). E fino alla conclusione della sua esperienza nel 2005 ha contribuito a dare all’orientamento comunitario un impronta metodologica sempre più rigorosa promuovendo un’intensa attività di ricerca.

Nell’area statunitense possiamo ricordare vari approcci fra cui Chestnut Lodge, la Menninger Clinic e Austen Riggs.
Partiamo dal Chestnut Lodge Hospital, fondato nel 1908 dalla famiglia Bullard, nella cittadina di Rockville nei dintorni di Washington. Nel 2001 questa istituzione è stata messa all’asta per fallimento.
A partire dagli anni Trenta questa struttura ha visto passare nel proprio staff a vari livelli, numerosi studiosi tra cui Frieda Fromm-Reichmann, Harry S. Sullivan, Harold Searles, James Burnham, Ping-Nie Pao e David Feinsilver.

Dal 1933 Dexter M. Bullard, decide di trasformare il Chestnut Lodge in ospedale psicoanalitico e avvia un programma di psicoterapia intensiva con tutti i pazienti ricoverati. Questa modalità di procedere però crea diversi problemi, per cui ad un certo punto si decide di dividere la staff in due figure: la prima il “therapist” che si occupa della funzione psicoterapeutica con un ciclo di sedute di quattro volte la settimana; il secondo l’”administrator”, il quale si occupa di tutti gli altri aspetti assistenziali, incompatibili con la figura del terapeuta.

Tutto funziona fino a che i numeri sono piccoli, ma con la successiva crescita dei reparti, circa 7 con 80-100 pazienti e 20 medici, le cose si complicano e incominciano ad emergere quelle caratteristiche conflittuali e competitive che portano negli anni Cinquanta ad una prima revisione di tutta l’organizzazione. Viene creato un assetto gerarchico facente capo ad un “clinical director” e a un “director of psychotherapy” i quali devono risolvere i problemi di valutazione clinica, e nel caso questo non basti devono riferirsi ad un “Council” composto da terapeuti anziani. Se questo non dovesse ancora bastare la decisione ultima viene presa da Dexter M. Bullard jr.

Intorno al 1949 l’istituto di ricerca creato con i finanziamenti della Fondazione Ford promuove un progetto di ricerca sugli effetti di tipo organizzativo dello staff curante sulla sintomatologia e sull’evoluzione del paziente. I ricercatori trovano quella che loro definiscono come mirror – image structure, cioè un fenomeno di risonanza sociopatologica, nel quale il paziente trova nell’ambiente circostante uno specchio alla propria frammentazione interna. Sorvolo tutti i particolari, ed aggiungo che alla fine degli anni Cinquanta il Chestnut Lodge Hospital, affronta una ristrutturazione che lo porta a sperimentare una gestione clinica di tipo comunitario. Da questa visione oltre all’integrazione delle famiglie nel processo di cura, si hanno altri risvolti che portano ad una fase cosiddetta “parlamentare”, in cui vi sono varie attività che vanno dall’esercizio fisico da parte di tutta l’equipe con un gruppo quotidiano denominato “contatto fisico”, all’utilizzo di riunioni con i pazienti, personale e famiglie per dare dei “feedback” da parte dello staff, ed infine una accoglienza ed integrazione emotiva delle proiezioni del paziente da parte del personale. Pao negli anni Settanta realizza uno studio in cui fa una classificazione tra i vari sottotipi di schizofrenia.

Foresti e Vigorelli (Foresti & Vigorelli, 2012) riassumono il modello di lavoro del Chestnut Lodge secondo i seguenti punti: presa in carico individualizzata con due figure professionali therapist e administrator; risonanza sociopatologica in cui il gruppo curante è specchio della mente del paziente psicotico; scoperta dell’importanza di un’integrazione biopsicosociale anche con tutte le figure professionali che si occupano della quotidianità; studio teorico clinico sulla specificità del trattamento psicoterapeutico psicoanalitico per le psicosi.

La Menninger Clinic, che gli autori prendono in considerazione oltre che per il fatto che rappresenta uno dei primi ospedali che hanno perseguito con convinzione la via del trattamento terapeutico ambientale nella clinica della malattia mentale, anche per il fatto di essere all’avanguardia dal punto di vista della ricerca e di aver avuto tra le sue fila i più importanti teorici della psicologia e psicoterapia. Alcuni esempi possono essere: David Rapaport, Luborsky, Rubinstein, Shafer, Kernberg, Gabbard, Fonagy e tanti altri.
Il modello di lavoro della Menninger Clinic può essere così riassunto: un modello biopsicosociale della psicopatologia; un approccio interdisciplinare e integrato alla diagnosi e al trattamento, che raccoglie le più recenti acquisizioni in ambito delle neuroscienze, della psichiatria e della psicoanalisi; un approccio terapeutico centrato sul paziente nel suo ambiente di vita con programmi specifici di trattamento a seconda della tipologia di disturbo la fase del ciclo di vita, ed un progetto terapeutico intensivo individualizzato soprattutto con pazienti cronici o con sintomatologia complessa; un forte e fecondo connubio tra cura, formazione e ricerca; lo studio della psicopatologia istituzionale e della funzione del leader nei gruppi e nell’organizzazione.
Su quest’ultimo punto si può ricordare tutte le tipologie di leadership che vanno dal “leader che non sa dire di no”, al “leader che ha assolutamente bisogno di essere amato e ammirato”, dal “leader che deve controllare tutto”, al “leader assenteista”, dal “leader poco disponibile ed instabile”, al “leader corrotto” ed altri.

Un’altra esperienza dell’area statunitense può essere quella di Austen Riggs. Tale struttura è un piccolo centro psichiatrico privato e senza scopo di lucro, fondato nel 1910 da Austen Fox Riggs con un altro nome, e basato sulla talk therapy con una combinazione di attività quotidiane che sono frutto di un equilibrio tra lavoro, gioco, riposo ed esercizio. Nel 1919 viene nominato, appunto, fondazione Austen Riggs e nel 1947 vi è arrivato come direttore Robert. P. Knight il quale sviluppa quello che è diventato il più grande Centro della Psicologia Americana dell’Io. Per un trentennio è stata diretta anche dallo psichiatra e psicoanalista Edward R. Shapiro.
In questo centro, che cura una media di settanta pazienti all’anno, viene fornita una psicoterapia psicoanalitica intensiva in una comunità aperta e non coercitiva.
Il modello operativo è così riassunto: un centro specializzato per pazienti gravi “resistenti al trattamento”; un sistema articolato di cura in strutture differenziate con setting psicodinamico aperto e con diversi livelli di assistenza e protezione; una psicoterapia psicodinamica intensiva; una riflessione gruppale basata sul concetto di vita esaminata (examined living); un programma comune delle attività, delle arti, con partecipazione alla scuola materna interna in cui i pazienti aiutano le insegnanti in tutte le funzioni scolastiche; un lavoro di ricerca e formazione interdisciplinare.

In Francia si possono ricordare le esperienze di Velotte e di Villeurbanne. La comunità La Velotte è stata fondata da Paul – Claude Racamier nel 1968. Viene comunque specificato che è nata dall’incontro tra un equipe terapeutica e alcuni pazienti con le loro famiglie, dal quale è stata fondata un’associazione nel 1967, che gestisce la comunità.
Racamier è uno psicoanalista e psichiatra importante in Francia, per i suoi studi sulla personalità normale e patologica e per altri aspetti più prettamente psicoanalitici. Non entro nel merito delle sue definizioni, che possono essere più o meno condivise, anche se alcune sue intuizioni e provocazioni sono molto interessanti soprattutto per quello che riguarda le “azioni parlanti”, cioè il fatto che nel dialogo con uno psicotico partendo dalle azioni si può riattivare quel processo di pensiero che pare essersi bloccato. Egli sostiene che più le azioni parlanti sono paradossali, ma giuste, più i pazienti capiscono e le accettano. Dal mio punto di vista usa, il linguaggio agito dello psicotico.
Foresti e Vigorelli riassumono il modello operativo di La Valotte nel seguente modo: comunità terapeutica come incontro e co – creazione tra una equipe terapeutica e alcuni pazienti con le loro famiglie; integrazione tra soin insitutionel e thérapie, cioè sogno istituzionale e terapia; pratica delle complementarietà contradditorie, quali responsabilità/sicurezza e continuità/discontinuità; passaggio dalla seduzione narcisistica alla relazione oggettuale; utilizzo di azioni e oggetti parlanti in uno spazio transizionale.

Il secondo esempio di struttura di cura riportato dai due autori è quello di Villeurbanne presso Lione. Questa struttura si articola nella Comunità terapeutica di La Baisee, nel centro di crisi di tipo comunitario (MAP) e nel Foyer d’hebergement Le Florian, ed è stata fondata da Marcel Sassolas nel 1968 attraverso la costituzione di una associazione. Questa associazione è una complessa struttura formata da presidi di cura, ambulatori, centri residenziali e semiresidenziali. Sassolas si dichiara allievo di Racamier, ed ha un concetto di cura in cui vi deve essere l’alleanza tra cura individuale e approccio gruppale. Per questo psichiatra, più comunità con differente funzionamento possono essere proposte al paziente, in risposta al bisogno del soggetto. Il sistema di cura integrato di Sassolas viene così articolato: primo i luoghi di cura, che sono strutture che funzionano come un sistema protettivo nelle situazioni di crisi acuta, sia temporanea che prolungata, di break-down, crollo o destrutturazione dell’organizzazione psichica o quando le difficoltà della relazione duale oltrepassano la possibilità di contenimento di vissuti auto – ed eterodistruttivi; secondo i luoghi di vita, in cui un gruppo di strutture presuppone pazienti relativamente capaci di “essere presso se stessi” investendo sia lo spazio istituzionale, come territorio maggiormente proprio, sia la relazione con il gruppo.

"1979 - BasagliaFoto800" di Harald Bischoff (http://www.mad.ag) - Opera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons - http://commons.wikimedia.org/wiki/File:1979_-_BasagliaFoto800.jpg#mediaviewer/File:1979_-_BasagliaFoto800.jpg

“1979 – BasagliaFoto800” di Harald Bischoff (http://www.mad.ag) – Opera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons – http://commons.wikimedia.org/wiki/File:1979_-_BasagliaFoto800.jpg#mediaviewer/File:1979_-_BasagliaFoto800.jpg

L’Italia dal canto suo oltre all’esperienza psichiatrica dell’ospedale di Basaglia ha avuto una grande varietà di esperienze comunitarie, in alcuni casi legate al disturbo da uso di sostanze, ma non solo.

Ho analizzato tutte queste esperienze comunitarie di orientamento psicodinamico, condividendo l’impostazione di Foresti e Vigorelli, sull’analisi storica, in quanto dal mio punto di vista tutte queste vicende possono mostrare anche le possibili strade che può prendere una comunità. Infatti, leggendo tutte queste ricostruzioni del passato si possono trovare anche spunti di riflessione nel presente.

Sia nel bene che nel male, molte comunità hanno avuto più o meno successo a seconda delle vicende del fondatore o ideatore, oppure semplicemente per mancanza di fondi, pur essendo esperienze riconosciute di ottimo livello. Come dire, una delle preoccupazioni che maggiormente attanaglia dentro le comunità, è quella di creare un ambiente che funzioni, che sia facilitante per il cambiamento ecc…, ma molte volte questo non basta. Salto il commento su quanto questo sia illusorio. Dal canto loro gli autori propongono la strada della ricerca e del visiting, argomento che verrà trattato nel prossimo paragrafo sui paradossi di una comunità.

I paradossi dell’approccio di comunità

Per chi ha lavorato in una comunità, ma comunque anche per i non addetti ai lavori, è facile notare come tutti questi approcci sono legati indissolubilmente a qualche figura carismatica, ed anche se si pensa alla situazione in Italia, ci si rende conto che solitamente si pensa ad una comunità fondata da qualcuno.
Questo aspetto è molto interessante, in quanto si vede come pur essendo importanti le potenzialità del gruppo di cura, queste vengono attivate in principio da un singolo individuo.

In una prospettiva un po’ diversa dalla mia, Foresti e Vigorelli (Foresti & Vigorelli, 2012) nel loro testo fanno notare come dalla storia delle comunità terapeutiche si possono trarre tre paradossi ed altrettante idee guida.
Il primo paradosso riguarda appunto l’idea guida di quella che loro chiamano la group relations. Infatti per avviare processi di autorganizzazione gruppale, base del funzionamento di una comunità, occorre che il leader metta a disposizione i fattori materiali, mentali e organizzativi che rendono possibile il pensiero di gruppo. Io a questo punto aggiungerei, che senza un individuo che offre una serie di strumenti per avviare tale processo, tutto ciò non potrebbe avere un seguito.

Loro aggiungono che oltre a fornire condizioni di spazio e di tempo adeguate, il leader deve far fronte alla tendenza del gruppo a dimenticare ed eludere, il compito istituzionale amministrando efficacemente le altre due variabili.
In questo, spiegano, tornano utili i concetti dei leaderless group projects di Bion e il fenomeno del movimento presenza/assenza della leadership, che anche se presente, rimanda al gruppo la gestione del compito istituzionale. Ciò però diventa impossibile in una comunità poiché la distanza tra il ruolo di staff ed utenti rimane troppo rigida impedendo lo sviluppo dinamico delle idee e la trasformazione organizzativa dell’istituzione. Per gli autori il paradosso è appunto questo cioè la mancanza di quel movimento che garantisce la sopravvivenza della comunità. Nella mia prospettiva io aggiungerei che il leader carismatico ad un certo punto può avere l’effetto opposto a quello che ha avuto all’inizio, frenando il processo anziché incentivarlo, vedi i casi di Jones e Main.

Il secondo paradosso riguarda quello che secondo loro è stato concepito dalla psicoanalisi senza divano. Infatti questo ha creato la situazione per cui là dove si è cercato di pensare analiticamente la differenza tra il funzionamento individuale e quello gruppale si sono avute le idee psicoanalitiche più utili al movimento comunitario e cioè quelle della teoria del lutto originario e della seduzione narcisistica. Nella prima si pensa al tema di separazione e quindi di emancipazione dei pazienti, nella seconda al superamento della seduzione narcisistica, soprattutto con pazienti gravi.

Il terzo paradosso riguarda il fatto che molte comunità sono autoreferenziali ed isolate, per certi versi pensando al gruppo come soluzione, non fanno rete. Questo secondo gli autori è un limite che mina quella che viene definita come culture of inquiry cioè quei processi di autosservazione, autovaluzione e ripensamento.

Su questo puntano molto sul modello del visiting inglese, metodo di valutazione delle cure nelle comunità basato sull’incontro diretto tra equipe, realizzato con visite reciproche e confronto sulle risorse e sulle criticità.
Di fatto uno dei problemi che attanaglia le comunità è quello della validità scientifica, o della cosiddetta efficacia scientificamente dimostrata, e non solo per un fattore scientifico, ma anche economico.
Come descrive Lombardo (Lombardo, 2004):

“La quasi totalità delle informazioni raccolte fa riferimento a bibliografia inglese e americana per due motivi. Primo perché in entrambi i paesi esiste un movimento molto attivo di difesa dell’approccio d’ambiente e di comunità al trattamento psichiatrico. Secondo, perché prima d’ogni altro paese, hanno imparato a difendersi e adattarsi al principio dell’Evidence Based Medicine, (EBM), secondo il quale sembra proprio che ogni intervento sociosanitario che non provi l’efficacia sul piano costi – benefici vada buttato alle ortiche.” (Ivi, p. 299)

Questo infatti, mette in risalto un ulteriore aspetto, e cioè quello dei costi di queste strutture, che per esempio nel caso dell’Henderson, possono portare alla chiusura od al cambiamento di attività svolta.

Vedi anche:

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (1a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (2a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (3a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (4a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (5a parte)

Bibliografia.

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