L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (4a parte)

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Autore: Dott. Nicola Gentile

Durante la mia specializzazione in psicoterapia ho avuto modo a più riprese di confrontarmi con l’approccio terapeutico di comunità.
Tale modalità di svolgere terapia con pazienti anche con gravi diagnosi psicopatologiche ha creato in me molta curiosità, soprattutto per quel che riguarda le origini e poi le possibili ripercussioni di tale mezzo nella psicoterapia individuale.

Una delle difficoltà che ho maggiormente incontrato come aspirante terapeuta, all’interno delle comunità in cui ho lavorato, è quella dell’incontro con un terapeuta che non ero io, ma bensì la struttura che mi ospitava. Come ho imparato a dire quasi da subito: “Non sono io il terapeuta, ma è la comunità che è terapeutica”.

Questa piccola banale distinzione, ho trovato che sia uno dei problemi che maggiormente attanaglia e rende difficile il lavoro nelle comunità da parte sia degli operatori che degli utenti, facendo incorrere chi opera in questo settore in una vera e propria patologia studiata dalla Maslach (1982) denominata “Sindrome di Burnout”. Per far capire meglio questo concetto cito uno dei direttori che ho avuto il piacere di conoscere, il quale parlava sempre di “Battitori liberi”. Come dice la stessa autrice, la difficoltà di chi opera nel sociale di rimanere equidistante, cioè di non essere troppo coinvolto, ma di non essere neanche troppo distaccato, può essere causa di esaurimento emotivo e molto disabilitante sia dal punto di vista lavorativo che esistenziale.

Superate queste difficoltà, si possono attingere da questo approccio molti utili consigli che il “grande” terapeuta, può dare anche a chi come noi si appresta a fare questo lavoro da solo.

Un’esperienza diretta

In questi anni, come accennato, ho avuto la possibilità di confrontarmi con l’approccio di comunità in due situazioni.
La prima come tirocinante specializzando in psicoterapia, in una comunità terapeutica per persone con diagnosi con disturbo da uso di sostanze per un periodo di circa otto mesi. Nella seconda occasione, ho trovato lavoro come operatore, per un periodo estivo di circa quattro mesi in una comunità in doppia diagnosi. In entrambe le situazioni ho dovuto affrontare delle problematiche legate al ruolo che ricoprivo.

paura-solitudineNella mia esperienza come operatore in comunità, sicuramente ho avuto molte difficoltà, legate soprattutto al ruolo attivo che un operatore deve avere. Detto questo comunque sono riuscito sempre a distanziarmi da questa figura “tuttofare”, con una espressione semplice, in cui sostenevo sempre <<l’operatore in comunità conta quanto una seggiola, fa parte dell’arredo>>. Qualcuno potrebbe storcere il naso, pensando ad una posizione estremamente passiva, ma come detto il ruolo attivo che rivestivo dal mio punto di vista poteva essere riequilibrato solo mettendo al centro dell’attenzione gli utenti.

In entrambe le situazioni, comunque, mi sono trovato in una posizione diversa da quella di terapeuta, e soprattutto in una posizione di autorità, o quasi, visto che nel primo caso, mi era stato indicato di riferire se vedevo qualcosa che non mi tornava agli operatori. Questo in principio, soprattutto nella prima situazione, mi ha fatto venire alla mente il famoso esperimento di Stanley Milgram (Milgram, 1974), sull’obbedienza all’autorità, e soprattutto l’episodio dell’infermiera, la quale somministra tutte le scosse fino in fondo, perché è abituata ad obbedire al medico. In questo caso, mi sono trovato in conflitto tra l’essere un rigido guardiano oppure un semplice osservatore passivo. L’esperimento che forse assomiglia di più a quello che sto esprimendo è quello di Philip Zimbardo, riportato dallo stesso autore nell’introduzione al testo della Maslach (Maslach, 1982), sul finto carcere a Stanford, nel quale persone sane prese a caso diventarono realmente carcerieri oppure carcerati, soltanto per il ruolo che ricoprivano. E’ indubbio che come operatore dovessi avere il ruolo “contenitivo”, che mi veniva richiesto, ma fino a che punto?

Ovviamente gran parte delle difficoltà non sono legate al rapporto con gli utenti, che per ovvi motivi, difficilmente hanno comportamenti che potrebbero minare la loro permanenza in strutture che molte volte li sfamano o gli danno un tetto. Contrariamente a quello che prevede un approccio comunitario, infatti, molte persone si rivolgono a queste strutture più per un problema assistenziale che terapeutico propriamente detto.
Una grossa difficoltà per esempio è rappresentata dall’imparare le storie di molte persone, continuamente. In modo ossessivo, tutti i giorni si aggiunge un tassello alla storia di ognuno degli utenti della comunità, per cui ad un certo punto ci si trova a vivere la vita degli altri. Questa semplice ripetizione, porta a voler fare qualcosa per modificare vite che conosciamo a memoria, perdendo di vista l’obiettivo della comunità di non fare niente. La frase citata da me all’inizio sul fatto che è la comunità che è terapeutica, così come quella citata poco fa, sul contare quanto una seggiola, mi servivano come difesa, anche da me, sul desiderio di fare qualcosa.

Questo argomento è in netto contrasto con la mentalità della comunità, o meglio con le mentalità che girano nelle comunità, in cui molte volte a lavoro ci sono educatori, che hanno una formazione diversa da chi ha studiato psicologia. Quindi si creano i partiti degli operatori, quelli con formazione psicologica, quelli con studi in campo educativo, ed infine, gli ex-utenti. Ognuno tira per un atteggiamento, portando a quella situazione da “battitore libero” accennata in precedenza. Dal mio punto di vista comunque ho anche imparato tanto, proprio perché lavorando a stretto contatto con persone di formazione diversa dalla mia, mi sono potuto interrogare costantemente sul modo che avevo di stare in comunità.

Per le ragioni spiegate in precedenza sul problema dei ruoli, posso aggiungere che per circostanze che solo chi vive in comunità conosce, il dover prendere decisioni, nelle famose riunioni, o il dover far rispettare delle regole, che erano state prese a fini terapeutici, mette continuamente in crisi. Io per mio conto, ho sempre cercato di farmi chiarezza sulle regole che di volta in volta venivano concordate, e per quanto possibile di farle rispettare.

Volendo tornare sugli aspetti teorici, non sono molto in accordo con Lombardo (Lombardo, 2004), quando nel suo testo cerca di spiegare come dovrebbe essere, o cosa dovrebbe fare un operatore in comunità. Non tanto per come pone gli argomenti, che sicuramente condivido, ma perché ad un certo punto, ciò che pare importante è quello che fa un operatore, e l’atteggiamento che ha. Dal mio punto di vista, il ruolo centrale lo ha sempre l’utente, il quale decide se utilizzare lo strumento che gli viene messo a disposizione.

Durante tutto il mio scritto, come già detto, emerge una posizione passiva, sia in ambito terapeutico, che comunitario. Non spiego il perché di questa scelta, non tanto perché vi sia una difficoltà teorica, ma perché fa parte di me. Di fatto, io ho sempre condiviso quella visione che “per forza non si fa niente”. Quindi dal mio punto di vista cerco sempre di far sì che le persone decidano da loro cosa vogliono fare, compreso in una comunità, dove tranne tenere per le regole, se una persona decide che non vuole curarsi, non c’è atteggiamento che regga.
Come ho sempre detto, la mia responsabilità finisce con le mansioni che “da contratto” devo fare. Il resto ce lo devono mettere gli utenti.

Lombardo, effettivamente, spiega i perché un operatore decida di fare l’operatore, oppure di lavorare in un determinato ambito, così come critica alcuni interventi definiti alla “premio Nobel”, modo in cui li aveva chiamati Tom Main a suo tempo.
Infine, uno degli aspetti che più mi divide da Lombardo è la visione della noia. Questo importante sentimento, dal mio punto di vista, è uno dei cardini, della vita di comunità. Secondo l’autore, questo sentimento può essere espressione di aggressività passiva:

“ovvero di una forma di distruttività che passa dall’annichilimento dello sforzo comune. […] La risposta migliore, in questi casi, si troverà nel rafforzamento della coesione del gruppo e nel senso di fiducia rinnovata soprattutto dall’ascolto empatico e dalla tolleranza.” (Ivi, p. 212)

Dal mio punto di vista, la noia, è un sentimento impossibile da contrastare, anzi per certi versi la capacità di stare dentro un emozione negativa, come questa, può essere di giovamento anche quando si esce dalla comunità. Di solito, soprattutto nei disturbi da uso di sostanze, si tende a fare uso di droghe e derivati, proprio quando tornati alla vita di tutti i giorni, si incomincia a provare noia. Come dire appena si affrontano le emozioni ed i sentimenti che la vita ci propone, si usa un “palliativo”, quello che in terapia, potremmo chiamare il sintomo, per risolvere questo conflitto interno. Lombardo, in questo pare che cerchi di trovare quell’atteggiamento “positivo” che non è detto che in fondo sia salutare.

Quindi in estremità si rimane come al solito con molte domande e poche risposte, su cosa funziona e cosa no, ma questo penso sia uno degli aspetti che più affascinano del mondo della terapia.
L’autore dal canto suo sostiene che per considerare un’istituzione che funziona dovremmo stare in una posizione depressiva. Infatti scrive:

“Qui, per finire il discorso, anticipiamo solo che un’organizzazione che funziona è in posizione depressiva: ovvero è consapevole delle ansie interne al sistema occupato in un compito (le ansie di riuscire bene) e di quelle esterne che possono minacciare l’esistenza dell’istituzione (se il prodotto del lavoro non dovesse soddisfare).” (Ivi, p. 229)

Su questo punto, entro in un concetto, che per chi studia psicoterapia è normale, ma che nell’immaginario comune assume un idea completamente opposta. Nel disturbo da uso di sostanze, solitamente si pensa che la sostanza sia il “male”, o comunque un qualcosa di “riprovevole” da considerare in modo negativo. Questa falsa credenza in realtà non tiene conto del fatto che qualsiasi sostanza, in realtà, non è altro che il “piacere” estremo. Altri teorici parlerebbero del “luogo del godimento”, così come si potrebbe dire del sintomo in terapia.

Lavorando con le dipendenze, si è a contatto con cosa significa cercare di rinunciare a qualcosa che ci procura enorme godimento. La posizione depressiva, quindi può anche essere auspicabile, non tanto perché sia salutare, ma perché rappresenta un modo di intendere il fatto che, per certi versi, si deve rinunciare ad un piacere, o comunque come ho sempre pensato, ritornare ad averne un po’ più di “paura”, per quanto impossibile.
Un ultimo punto secondo me molto importante è quello delle figure carismatiche che stanno dietro alcune comunità terapeutiche. Come già detto parlando di Maxwell Jones e dell’Henderson Hospital, molte comunità sono state fondate da personaggi carismatici.

libroNella mia esperienza in due comunità legate al C.e.I.S. (Centri di Solidarietà), ho potuto osservare come in entrambi i casi le due comunità fossero state fondate da due persone con un grande carisma. Da una suora nel primo caso, da un prete nel secondo. Questa modalità ovviamente è più vicina a quella della visione cattolica, senza entrare nel merito dell’esperienza di don Picchi e di quello che sta alla base del “Progetto Uomo”. In alcuni casi accomuna anche esperienze più laiche ecc…

Una cosa interessante e su cui mi soffermerò poco perché questo meriterebbe uno studio più approfondito, è che queste strutture in gran parte nascono dall’idea di una persona, appunto carismatica, argomento che ho in parte affrontato nel parte dedicata ai paradossi.
Questo punto mi sembra interessante anche nella prospettiva di quello che dice Bion sull’assunto di base della dipendenza in relazione con alcune istituzioni, vedi la Chiesa.
In ciò che ho potuto osservare queste figure avevano un gran peso nelle decisioni e nelle filosofie della comunità, ed anche se poco presenti rimanevano per le persone come figure importanti.

Infine, come si può notare ho parlato della comunità in termini di disturbo da uso di sostanze, non tanto perché ritengo che le comunità si debbano occupare solo di questo tipo di disturbi, ma perché la mia esperienza è legata a questo. Nelle fonti che ho citato si parla in realtà della comunità intesa come tecnica di cura per molti tipi di patologie, e rimando ai testi per una disamina più specifica. Lombardo (Lombardo, 2004) fra l’altro nel suo libro quando parla della ricerca e della visibilità che le comunità cercano di avere anche con l’ausilio di un’associazione internazionale (vedi ATC) si lamenta specificando come:

“Nonostante ciò le comunità terapeutiche psichiatriche continuano a rimanere fuori dai motori di ricerca di materiale scientifico per la psichiatria, essendo il loro nome associato al recupero delle tossicodipendenze” (Ivi, pp. 313-314)

Ed effettivamente quando si pensa alle comunità terapeutiche si pensa subito alle esperienze fatte con i disturbi legati alle sostanze e difficilmente si pensa ad altre situazioni che fra l’altro sono previste dalla famosa legge stralcio 13 maggio 1978 n. 180 poi trasformata in legge n. 833 del 28 dicembre 1978.

Nella mia esperienza, più nella prima comunità, perché nella seconda i casi di disturbo da uso di sostanze ancora in atto erano minori essendo in doppia diagnosi, in gran parte si è trattato di affrontare disturbi legati alla sostanza. Qui però faccio un piccolo accenno ad un mio personale punto di vista, per cui tutte le distinzioni psicopatologiche, potrebbero essere riassunte in uno schema abbastanza semplice, in cui vi è un disturbo legato ad una o più emozioni, che viene soddisfatto da un sintomo. Come dire dal mio punto di vista se si leggono approfonditamente tutte le diagnosi ci si rende conto che dicono con parole diverse tutte la stessa cosa. Per certi versi rimane comprensibile quello che dice Bion (Bion, 1970) quando parlando della memoria e dei desideri, ne auspica la loro assenza.

Questo però non va ad inficiare le classificazione psicodiagnostiche che secondo me rimangono molto utili, per avere un primo punto di vista. Volendo essere un po’ sistemici, soddisfano il bisogno di complessità. Infatti, si potrebbe sottolineare la presenza di persone con gravi psicosi, soprattutto nell’area dello spettro schizofrenico. In questi casi, ritengo che l’aspetto contenitivo, sia necessario e soprattutto auspicabile, ma non per questo ritengo che non potrebbero essere accolte in una struttura di tipo comunitario.

 Vedi anche:

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (1a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (2a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (3a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (4a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (5a parte)

Bibliografia.

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