La narrazione e l’utilizzo del diario in psicoterapia

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Autore: Beatrice Maiani

“Non sei fregato veramente finché hai da una parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”.

Queste le parole di Baricco in Novecento e non c’è niente di più vero perché ogni persona è protagonista della propria particolare storia e nel raccontarla sembra appropriarsene in misura maggiore.

L’impiego della narrative therapy si dimostra particolarmente diffuso in psicoterapia anche per merito di analogie comuni tra i processi creativi finalizzati alla costruzione di storie e quelli messi in atto dal terapeuta all’interno di una psicoterapia, soprattutto in fase di interpretazione. La psicoterapia è infatti un processo di riscoperta di nuove vie per l’espressione della propria identità e della propria realtà mediante la soggettività dello psicoterapeuta.

diario

Tra i primi ad attribuire valore terapeutico alla narrazione è Jerome Bruner che ne mette in evidenza il carattere internazionale, transtorico e transculturale sottolineando che la vita stessa è storia. Bruner ipotizza l’esistenza di due differenti modalità di conoscenza e quindi di pensiero, autonome ma complementari: il pensiero paradigmatico e quello creativo. Il primo tenta di essere quanto più “scientifico” e formale possibile, è dunque orientato alla risoluzione dei problemi pratici, più astratto è invece il secondo, che va’ a costruire un significato che è incentrato sul narrarsi a sé e all’altro, caratterizzato dal significato attribuito alle proprie esperienze di vita, nasce così il racconto.
Bruner ritiene inoltre che l’identità di un singolo all’interno di una collettività sia da spiegare principalmente come un’altra costruzione narrativa che, in un periodo critico, può far perdere il senso delle proprie azioni individuali a favore del pensiero del gruppo..

L’uomo vive immerso nella narrazione, sia ripensando e valutando ogni azione passata che ipotizzando i risultati di quelle future. L’istinto narrativo è antico in noi quanto il desiderio di conoscenza, è un modo privilegiato di attribuire significati. (Smorti, 1994).
La storia nasce da tutto ciò che non è “normale”, da avvenimenti che si sono in qualche modo distinti dal consueto flusso degli eventi. Il pensiero narrativo ha origine dalle immagini ed è quindi per sua natura illogico, inoltre, funziona per analogie; sono proprio quelle somiglianze di contenuti ed emozioni a creare una fusione delle immagini che si susseguono ed a determinare una sequenza; continuamente modificabile.

Secondo un’altra corrente di pensiero la narrazione sarebbe il risultato della percezione di una sequenza di eventi non casualmente correlati. Tra i sostenitori di questo pensiero ricordiamo Ricoeur e Polster; soprattutto quest’ultimo indaga l’analogia tra vita e romanzo, ritenendo tale scoperta terapeutica di per sé.

La validità terapeutica del narrare risiederebbe proprio nella possibilità di scrivere e riscrivere la propria storia adeguandola alle esperienze vissute; si fonda quindi sulla continua ridefinizione di un’identità; così come un sistema che si auto-organizza, strutturalmente determinato e volto a mantenere la sua unità. L’identità, più che una rappresentazione, pare essere una costruzione che richiede individualizzazione e differenziazione dal mondo. Guidano ritiene che i significati personali attribuiti agli eventi si costruiscano mediante processi di consequenzialità di eventi emotivamente significativi che portano alla visione unitaria di sé attraverso la creazione di una storia. Il sentimento di sé coincide con la coerenza interna di questa storia a cui protagonista deve in qualche modo adattarsi, imprevisti compresi in quanto parti integranti di ogni vissuto.
Quando un evento non può essere assimilato ecco che si forma il sintomo psicopatologico: nei nevrotici la causa risiede nella loro organizzazione troppo poco flessibile e rigida; nelle psicosi invece si può riscontrare una vera e propria rottura nella capacità narrativa. La psicoterapia consente di integrare gli eventi critici mediante continue riorganizzazioni del mondo interno.

La terapia narrativa ricorre spesso ad un’ottica del costruzionismo sociale che si basa sulla concezione che la realtà sia una creazione, un insieme di storie, idee, determinata anche dal linguaggio che attribuisce un diverso valore sociale a seconda dei termini impiegati. Per il terapeuta l’esercizio della narrativa deve essere un mezzo verso la comprensione della comunicazione: nel raccontare vi è una conoscenza che avvalora ciò che esiste e facilita la gestione di quanto è incerto.

Il più importante esempio di terapia narrativa si ritrova nel pensiero di Michael White, a sua volta influenzato da Bruner. White inizia la sua carriera come assistente sociale assegnato a dei ragazzi encopretici, nelle cui storie ricerca degli uniques outcomes, dei risultati unici in grado di dare un senso di successo, studiando modalità con cui separare il problema dalla persona. Dopo alcuni tentativi pensa di oggettivare le esperienze personali sotto forma di storie, in quanto tali, riscrivibili dagli autori a proprio piacimento. Gli autori raccontano la propria vita soffermandosi su ciò che ritengono particolarmente rappresentativo e significativo. Così facendo White è arrivato a costituire un vero e proprio metodo di lavoro che si sviluppa all’interno di una metafora narrativa.
Il racconto della propria vita non è solo descrizione di fatti ma anche strumento di ristrutturazione di presente, passato e futuro. Spesso è un’unica storia ad essere dominante, quella che ci raccontano gli altri, a discapito dell’autenticità della persona. L’esteriorizzazione e l’oggettivazione del sintomo contribuiscono alla percezione di un problema che non è interno ma che aggredisce dall’esterno, favorendo l’incremento di fiducia nelle possibilità di superarlo.
Il terapeuta agisce solo indirettamente attraverso riformulazioni e potenziamento delle risorse individuali. Si può parlare quindi di White in termini di modalità di pensiero, supportata da una forte energia terapeutica e non esclusivamente di tecnica.

Anche Edelson pare utilizzare con i suoi pazienti un approccio narrativo. Fortemente orientato alla dimostrazione delle evidenze scientifiche dei risultati psicanalitici, ritiene tale modalità utile a favorire il confronto tra la psicanalisi e le altre scienze. Questo per il largo uso di concetti vicini all’esperienza impiegati anche dai cognitivisti ( ad esempio con i concetti di schema, scritto..), dagli informatici e neurologi, perfino dai ricercatori in psicoterapia (tra gli altri, nella codifica del Core Conflictual Relationship Theme: raffigurazione narrativa del concetto di transfert soggetta a misurazione).

In terapia il paziente racconta o agisce storie: le storie raccontate riguardano quanto viene detto dal paziente mentre quelle agite vanno oltre, si tratta delle drammatizzazioni dei due ‘attori’ coinvolti, paziente e terapeuta, ovvero i sentimenti di transfert. Il terapeuta può così’ restituire al paziente una ipotetica ricostruzione della storia, sostenuta dalle varie parti emerse, attraverso l’enfatizzazione di somiglianze o di temi prevalenti e tenendo presente le storie raccontate dai sogni.
Il fine ultimo è rendere consapevole il paziente dei propri schemi e copioni interni aumentandone il senso di padronanza. Occorre però prestare particolare attenzione : il racconto fornito dal terapeuta deve cercare di concordare e collaborare con quanto vi è di vero nella realtà vissuta dal paziente.

Uno dei limiti dell’approccio narrativo pare risiede nella mancanza di scientificità. Visto che si tratta di storie individuali, le narrazioni che emergono in una seduta non possono avere la pretesa dell’assoluta verità; possono facilitare il cambiamento del singolo ma non sono assolutamente generalizzabili, il valore di tale tecnica si esaurisce all’interno della coppia terapeutica.
Occorre inoltre tener presente che i pazienti sono altamente suggestionabili, di conseguenza l’analista stesso può suggerire ed indirizzare il flusso dei pensieri; allo stesso modo i ricordi infantili, essenziali per la psicoanalisi, sono scarsamente attendibili in quanto è stato dimostrato che, col tempo, è la memoria stessa a modificarli fisiologicamente (Grunbaum,, 1984). Una realtà psichica inconscia, nell’attimo in cui diventa conscia, è trasformata dal presente; allo stesso modo in cui il passato influenza il presente.
Considerato che non esiste modo di verificare l’attendibilità di storie ed interpretazioni occorre forse concentrarsi sulla produzione di prospettive diverse e alternative per il paziente che possono essere comunque utili al fine di migliorarne le strategie di adattamento perché forniscono più schemi di significato e rimandano alla sensazione di comprendere; in ogni caso possono sempre rinforzare l’alleanza terapeutica.
Bisogna infine considerare che anche l’ascoltatore contribuisce a giustificare la varietà di interpretazioni multiple; questo perché, se è vero che stili simili affrontano contenuti simili, questi possono provocare ascolti differenti caratterizzati dai significati attribuititi agli intenti etici dello stesso lettore, secondo il principio di una “enfasi narrativa ambigua”: ognuno legge all’interno di uno stesso racconto gli aspetti che riconosce meglio e che più lo caratterizzano da un punto di vista morale.

Guardando alla letteratura , anche in questo caso si può riconoscere un significato terapeutico della narrazione, incentrato sul linguaggio metaforico e figurato e più specificatamente sulle key mettaphors che, in via indiretta contribuiscono alla meta-riflessione conseguentemente ad un parallelismo con la propria esperienza, emotività e capacità di relazione.

Allo stesso modo, si possono osservare analogie tra linguaggio narrativo e linguaggio onirico: anche nei sogni si creano delle storie, spesso legate ad un aspetto specifico, più o meno comprensibile; in entrambi i casi si recuperano elementi legati a strutture profonde della personalità e con la narrazione se ne cerca una chiave di lettura.

La Giovampaola suggerisce il ricorso alla narrative therapy analizzandone alcuni aspetti in particolare:

– Il legame con le emozioni: nel tentativo di scovare processi analoghi tra episodi narrativi ed emozioni, una ricerca del 1996 di Anstadt, Merten, Ullrich e Kraause ha analizzato le espressioni facciali di paziente e terapeuta nel corso della narrazione di uno specifico evento. Come risultato è emerso un parallelismo tra emozione e narrazione, a conferma quindi di un probabile rispecchiamento emotivo;

– narrazione e percezione: voce e canale visivo sono componenti che influenzano il racconto quindi bisogna aver sempre presente che non vi si può prescinder. Questo significa che la storia autobiografica diventa terapeutica nel momento in cui svela ed evidenzia i processi storici e la rappresentazione che il paziente ha di sé;

– la terapeuticità del narrare: nel raccontarsi, nello specifico all’interno di psicoterapie di gruppo, si vivono sentimenti di condivisione, reciprocità e tolleranza, già di per sé terapeutici. Il terapeuta è solo l’ascoltatore, si limita a facilitare gli scambi e le interazione tra i membri del gruppo. Ogni cambiamento individuale è agevolato dall’acquisizione di un punto di vista diverso, in seguito fatto proprio attraverso l’”osservazione” della storia attraverso gli occhi del narratore;

– il terapeuta come narratore: secondo questa ottica lo psicologo rimanda la propria interpretazione al paziente facendo sue alcune storie e/o metafore, utilizzando quindi il potere magico delle parole. Con una tecnica retorica persuasiva (Erikson ne fa largo uso), ripetizioni e riformulazioni intende portare il paziente ad agire in modo terapeutico per sé stesso;

– la terapeuticità dell’ascoltare e del leggere: la biblio-terapia , la “terapia dei libri”, consente di valorizzare il potenziale terapeutico che deriva dalla lettura o dall’ascolto e non più dal raccontarsi. Grazie ai meccanismi di identificazione con un personaggio si può pensare di agire come lui, andando a vivere il personaggio, aprendosi al nuovo ed al possibile;

– la narrazione nell’infanzia: quando si ha a che fare con i bambini, si fa spesso ricorso alla narrativa. Fiabe e racconti consentono ai più piccoli una più semplice comprensione dei concetti più profondi. Inoltre, la stimolazione a costruire e ricostruire storie favorisce un migliore sviluppo cognitivo e da la possibilità di porre domande, di imparare a spiegarsi e riconoscere e quello che prima era sconosciuto;

– la “storia di vita”: raccontare la propria storia può avviare un processo di trasformazione del Sé. Si basa sul fatto che se racconto c’è qualcuno che ha il compito di ascoltare, in seduta è lo psicoterapeuta ad avere il ruolo dell’ascoltatore. Inoltre, raccontare una storia in terza persona consente di mettere una sorta di distanza tra sé e l’evento quindi di incrementare le libere associazioni. La storia di vita è infine ampiamente usata anche a livello relazionale (ad es. nella terapia sistemica familiare) ed anche con anziani e malati, sempre con l’intento di favorire i sentimenti di condivisione e ridurre la sensazione di solitudine.

– il superamento di un trauma: spesso l’approccio narrativo viene impiegato per tentare di far superare esperienze traumatiche, a partire dai vissuti contro-transferali del terapeuta. Con pazienti terminali si può ricorrere a racconti e/o lettura degli stessi; questo per far emergere e affrontare i vissuti dolorosi legati alla malattia. Questo metodo favorisce e stimola il pensiero creativo e rafforza i rapporti tra i malati e che si occupa di loro.

LA NARRAZIONE SCRITTA: IL DIARIO

Per concludere, passiamo ad analizzare l’utilità terapeutica della narrazione scritta di sé, ovvero del diario.
In molti studi si è cercato di indagare il rapporto tra racconto autobiografico e salute individuale per constatarne il potenziale terapeutico.
Pennebaker ha rilevato l’importanza di esternare i vissuti di eventi stressanti; l’autore è infatti riuscito a dimostrare l’efficacia della scrittura come metodo di auto-svelamento mettendovi in relazione miglioramenti nel funzionamento del sistema immunitario. Confrontando gruppi incaricati di scrivere storie di vario tipo ha scoperto che, coloro che avevano il compito di scrivere di episodi traumatici recenti aveva riportato miglioramenti nell’umore e un stato psicofisico migliore rispetto agli altri.
Inoltre è anche dimostrato anche che scrivere ha effetti positivi su svariate tipologie di persone: carcerati, vittime di reati, donne in attesa del primo figlio e questo vale per culture diverse e per tutte le classi sociali. pare che la scrittura autobiografica rinforzi il sistema immunitario, nello specifico, facilitando la produzione delle così dette cellule T-helper.
In un altro esperimento Pennebaker ha scoperto che scrivere di traumi immaginari comporta gli stessi benefici, al di là della veridicità della storia.

Esistono alcune ipotesi volte a giustificare l’efficacia della scrittura nel miglioramento della salute.
Quella che riscuote più consensi ritiene che il potenziale terapeutico di questa tecnica sia dovuto ad una ristrutturazione di pensieri ed emozioni essenziale ai fini di tradurre gli stati d’animo in parole.

Ancora una volta è Pennebaker ha validare questa teoria. Basandosi sul Linguistic Inquiry and Word Count, (strumento finalizzato a categorizzare parole tra emozioni positive- negative e cause-spiegazioni di eventi) analizza i racconti di traumi. Dai risultati è emerso come ai miglioramenti nelle narrazioni corrispondesse una maggiore comparsa di emozioni positive, una riduzione di quelle negative e un incremento di riferimenti a cause e spiegazioni. Le narrazioni, sempre più elaborate, comportavano una continua ristrutturazione di pensieri ed emozioni acquisendo sempre più una connotazione positiva rendendo così determinante il lavoro di rielaborazione e ricostruzione.
Infine, occorre mettere in evidenza come la writing cure, oltre ad apportare vantaggi individuali favorendo un cambiamento nella persona, abbia anche un risvolto sociale terreno in quanto la scrittura di per sé stimola lettura condivisa e partecipazione.

Per concludere si può affermare che la scrittura agisce attivamente nell’individuo fino a diventare una vera e propria strategia di coping.
In psicoterapia occorre però usare cautela, è necessario assicurarsi che il paziente sia pronto e preparato a quanto potrà emergere dal racconto di una storia, la sua storia. La scrittura espressiva può aiutare il paziente ad individuare ed analizzare le proprie credenze ed i propri pensieri automatici disfunzionali; solo una volta che si diventa consapevoli si può scegliere di cambiare.
BIBLIOGRAFIA:

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Grunbaum, A. (1984). The Foundations of Psychoanalysis. A Philosophical Critique. Berkley, CA: Univ. Of California. (trad. it.: I fondamenti della psicoanalisi.Milano: Il Saggiatore, 1988).

Pennebaker, J. W. (1999). Tradurre in parole le esperienze traumatiche: implicazioni per l’abuso infantile e per il mantenimento della salute.Psicologia della salute, 2, 32-48.

Pennebaker, J. W. (2004). Theories, therapies and taxpayers: On the complexities of the espressive writing paradigm. Clinical Psychology: Science and Practice, 11, 138-142.

Polster, I. (1987). Ogni vita merita un romanzo. Roma: Astrolabio.

Ricoeur, P. (1994). La vita: un racconto in cerca di un narratore, in Filosofia e linguaggio. Milano: Guerini e associati.

Smorti, A. (1994). Il pensiero narrativo. Firenze: Giunti.

White, M., & Epston, D. (1989). Literate Means to Therapeutic Ends. Adelaide (Australia): Dulwich Centre Publications.

White, M. (1992). La terapia come narrazione. Roma: Astrolabio

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