L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (3a parte)

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Autore: Dott. Nicola Gentile

Come accennato uno degli obiettivi di questo scritto è quello di fare un confronto teorico fra modelli diversi, ed in particolare tra quello gruppoanalitico, e quello sistemico. Di seguito verrà fatta un’esposizione che oltre a questi due modelli fa un confronto con altri, quali la gestalt, lo psicodramma ed anche qualche aspetto della teoria cognitivo-costruttivista.

La terapia gruppoanalitica e l’approccio sistemico

Possiamo dire che la terapia gruppoanalitica, discendente appunto dall’approccio di comunità, è un approccio terapeutico, che continua a dare molti spunti anche ad autori recenti, soprattutto per quanto riguarda una possibile integrazione con altri modelli, vedi lo psicodramma. In questo senso un importante interpretazione del gruppoanalitico è quella che descrive Giulio Gasca (Gasca, 2012):

group-paper-people“Ciò che caratterizza l’esperienza di siffatti gruppi è l’atteggiamento attivo che assume ciascun membro: non abbiamo più un paziente sdraiato su un lettino, reso così oggetto dell’osservazione e dell’operare interpretativo del medico-analista, ma una molteplicità di soggetti che disposti in cerchio, possono guardarsi tra loro e operare al tempo stesso come pazienti e terapeuti, scambiandosi emozioni, ricordi, pensieri e interpretazioni, mentre colui che conduce il gruppo, seduto anche lui nel cerchio si trova (e non solo fisicamente) a condividere la loro posizione, sì che Foulkes ebbe a dire che l’analista è il primo paziente del gruppo ” (Ivi, p. 68)

Questo autore, esperto di gruppi psicodrammatici, cerca di integrare nel suo testo le due visioni di gruppo, rispondendo per molti requisiti all’obiettivo che si è posto anche il seguente scritto.

Un aspetto importante è la prospettiva che dà, in quanto passa da una visione in cui l’inconscio è oggetto di osservazione, ad una in cui è il soggetto che responsabilmente osserva se stesso. La sua opinione ovviamente non è molto distante dalla mia, anche se non condivido la divisione netta fra soggetto ed oggetto. Infatti, non è molto comprensibile cosa sia oggetto di osservazione in gruppo. Secondo questa visione che cita appunto Foulkes, anche il terapeuta, entra nel gioco diventando egli stesso soggetto. Dal mio punto di vista il fatto che il terapeuta osservi il gruppo nel suo insieme fa si che il gruppo diventi egli stesso soggetto con regole proprie diverse da quelle di ogni singolo individuo, ma allo stesso tempo sia oggetto di attenzione da parte del terapeuta che con i suoi interventi evita che si vengano a creare gli assunti di base.

L’aspetto riguardante le regole diverse fra il gruppo nel suo insieme ed i singoli soggetti che lo compongono, dal mio punto di vista è appunto uno dei punti in comune con la terapia sistemico – relazionale . Se infatti consideriamo la teoria dei sistemi complessi per cui un sistema nel suo insieme segue regole diverse dai sottosistemi che la compongono, allora possiamo comprendere come ci siano molte somiglianze fra questi due modi di intendere i gruppi.

provaNel dettaglio il gruppo nel suo insieme è più normale di ogni suo singolo individuo. Quindi intendendo il gruppo come un sistema complesso, possiamo dire che la norma del gruppo non corrisponde alla normalità di ogni singolo individuo, che sarà sempre diversa da quella del gruppo. Appunto regole diverse. A questo punto entriamo nel vivo di un approccio comparato. Dal mio punto di vista infatti, tutti i modelli terapeutici usano un proprio linguaggio, che però spiegano sempre le stesse cose. Una visione comparata è quindi utile non tanto per creare un nuovo modello, tanto per capire con quale linguaggio vogliamo parlare, e soprattutto per comprendere quale linguaggio è più simile alla nostra struttura di personalità, e quindi a chi lo usa.

Io personalmente condivido molto il linguaggio usato da Bion, non tanto perché sia di facile comprensione, ma perché una volta entrati in certi meccanismi mi semplificano l’interpretazione che uso per i vari fenomeni che osservo.
Questa visione ovviamente contrasta con quella di altri modelli teorici, i quali osservano che ciò che cambia non è solo come vengono descritti i fenomeni, ma anche come si agisce su questi.

Un intervento sistemico, sarà sicuramente diverso da un intervento cognitivista, che a sua volta sarà diverso da un altro di un modello più o meno scientifico ecc…
Questa visione che a logica appare inattaccabile, nei fatti si dimostra però lacunosa, in quanto i soggetti interessati, cioè i vari terapeuti dei vari approcci, una volta maturata una certa esperienza, e staccandosi sempre di più dalla pura tecnica, nel loro agire (per tutto quello che vuole dire), in situazioni simili si è notato che fanno più o meno le stesse cose. Quindi i silenzi, o gli interventi, o le interpretazioni, diventano pressoché uguali, anche variando i modelli terapeutici utilizzati.

Ma entriamo nello specifico dell’approccio sistemico – relazionale in modo da essere più chiari. Come testi di riferimento utilizzerò sia quello della Ugazio (Ugazio, 1998) sia quello di P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson (Watzlawick, Beavin & Jackson, 1967) sulla Pragmatica della comunicazione umana.
Partiamo dal primo assioma della comunicazione citato da questi autori, cioè “l’impossibilità di non-comunicare”. Come scrivono gli stessi autori:

“In altre parole, non esiste un qualcosa che sia un non-comportamento o, per dirla anche più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento. Ora, se si accetta che l’intero comportamento di una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valori di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro.” (Ivi, pp. 40-41)

Che poi definiscono:

“Per riassumere, si può postulare un assioma ‘metacomunicazionale’ della pragmatica della comunicazione: non si può non comunicare” (Ivi, p.43)

Questo concetto ricorda in modo abbastanza marcato il “anche chi non fa niente fa qualcosa” di Bion.
In entrambi i casi, infatti quello che emerge è come sia per l’essere umano impossibile non fare niente, e come anche cercando di sforzarsi, non può non comunicare, e quindi fare qualcosa. Questo messaggio, per quanto semplice racchiude in sé un aspetto di speranza.

In quanto aggiunge a tutto quello che possiamo fare un ulteriore possibilità, cioè non fare niente. E’ come se aprisse una finestra che altrimenti sarebbe rimasta chiusa. Nella mia esperienza si è sempre insediato un vecchio detto italiano per cui: “Dal niente non viene fuori niente”.
In contrasto con questa visione Bion, ma anche gli autori sistemici, hanno dato un messaggio in cui anche dal niente, viene sicuramente fuori qualcosa. Sembra banale, ma non lo è.
Questa modalità, segue un po’ anche quella del medico, il quale in alcuni casi manda il paziente dallo psicologo , quando il soggetto non ha “niente” di organico che possa giustificare il suo malessere.

Watzlawick assieme ai suoi collaboratori nel loro testo, affrontano tutti i meccanismi legati alla comunicazione per cui i cinque assiomi possono essere così riassunti: non si può non-comunicare; vi sono vari livelli comunicativi di contenuto e di relazione, per cui la relazione classifica il contenuto; la relazione dipende dalla punteggiatura della sequenza di eventi; vi può essere una comunicazione numerica ed analogica; si può avere una interazione complementare e simmetrica.
Riguardo la comunicazione analogica gli autori scrivono:

“Cosa è dunque la comunicazione analogica? La risposta è abbastanza semplice: praticamente è ogni comunicazione non verbale.” (Ivi, p. 53)

Su questo ultimo aspetto, possiamo soffermarci, non tanto per l’importanza del concetto, ma per la modalità in cui viene spiegato. Sicuramente l’approccio sistemico, rappresenta una modalità molto esplicativa di spiegare i fenomeni, a differenza di alcuni testi psicoanalitici che risultano molto criptici, ma in alcune circostanze tale modalità appare anche troppo eccessiva. Ovviamente è un fatto di qualità, quindi non oggettivo, ma bensì soggettivo. Come spiegavo in precedenza, la comparazione non significa, prendere pezzi di teorie diverse e unirli a caso. L’obiettivo è appunto quello di esaminare tutti i possibili punti di vista, per poi fare una scelta in base alla propria personalità.

??????????????????La Ugazio (Ugazio, 1998) nel suo testo fa un operazione del genere quando si chiede se sono i pazienti che costruiscono le teorie psicopatologiche.
L’autrice quindi mette in relazione le varie forme di trattamento psicopatologico con le varie nevrosi. Per cui l’organizzazione semantica fobica viene messa in relazione con la terapia cognitivo – comportamentale, spiegando come il tipo di relazione che vuole questo tipo di soggetti, sia meno stretta.

Per quanto riguarda l’organizzazione semantica dei disturbi alimentari, il riferimento che fa è alla terapia sistemico – relazionale in quanto con l’osservazione delle relazioni, il soggetto si trova in una situazione in cui in ogni memento ed in ogni circostanza, la relazione con l’altro diventa centrale per la definizione del proprio sé.

Infine per quanto riguarda l’organizzazione semantica ossessiva, il riferimento è alla psicoanalisi, che nella sua relazione lavora molto sul dubbio e la rimuginazione.
Inoltre spiega:

“Più tardi, studiando la nevrosi ossessivo – compulsiva, mi accorsi che il contributo alla comprensione di questa psicopatologia fornito dalla psicoanalisi, e di cui quest’ultima è giustamente orgogliosa, è anche l’esito di una profonda consonanza con l’universo semantico del soggetto ossessivo. Al cuore di questa consonanza vi è l’idea di bontà “astinente”.
[…], la psicoanalisi classica condivide quell’idea del bene come privazione di male che svolge un ruolo decisivo nella costruzione del dilemma centrale di questa psicopatologia. L’idea di bontà “astinente”, così come non è appannaggio esclusivo dei soggetti con organizzazione ossessivo – compulsiva, non lo è neppure della psicoanalisi.” (Ivi, pp. 282 -283)

Ho aggiunto quest’ultimo spunto dell’autrice, la quale se è vero che fa risalire la psicoanalisi ad un organizzazione semantica, è vero anche che ne parla con uno strano tono.
Se l’operazione fatta dalla Ugazio, mi appare interessante, cioè descrivere quale tipo di patologie hanno costruito le psicopatologie, e a quale queste si siano maggiormente rivolte, dal mio punto di vista può essere fatto un ulteriore passo avanti. Cioè, visto che a loro volta i terapeuti sono stati pazienti, si potrebbe giungere alla conclusione sul perché si scelga un modello terapeutico anziché un’altro.
Un ulteriore punto interessante del testo della Ugazio è il seguente:

“Attraverso queste domande e altre procedure, che fanno leva sul principio che il più complesso spiega il più semplice, il terapeuta può introdurre forme di spiegazione diverse da quelle dei vari membri della famiglia, ma tali da non invalidare l’esperienza emotiva del paziente.” (Ivi, p 73)

Tale invalidazione dell’esperienza emotiva del paziente secondo la Ugazio verrebbe a crearsi con alcune teorie:

“A questo pericolo sembrerebbero esposte soprattutto quelle pratiche interpretative, frequentemente di orientamento kleiniano, più inclini a destituire di realtà il mondo esterno. Si tratta di un rischio del tutto assente nelle psicoterapie sistemiche.” (Ibidem)

Cercherò a questo punto di ampliare queste due affermazioni. Dal mio punto di vista il primo aspetto per cui il più complesso spiega il più semplice, è un concetto molto interessante in quanto mette in moto quella che potrebbe essere definita come Scienza della complessità, contrapposta alla visione di Cartesio.

Più semplicemente dal mio punto di vista in terapia sistemica si rispettano le regole di un sistema complesso, la famiglia, con interventi complessi.
Veniamo al secondo punto quello della critica ad un modello anziché un altro. Come si potrebbe intendere leggendo le parole della Ugazio, il modello sistemico appare migliore rispetto a quello psicoanalitico, ma di fatto se si prende l’interpretazione come un intervento complesso, non si vede la netta differenza con l’approccio sistemico.

In questo senso forse mi considero più comparato, in quanto nel mio interpretare, solitamente non pongo quello che dico come una verità assoluta, che “invalida” l’esperienza emotiva, ma come un’ipotesi, che può essere corretta a seconda del sentire del paziente. Questo secondo me è un tema centrale. Le accuse che molti modelli tendono a farsi fra di loro, sembrano più visioni chiuse che però non tengono veramente in considerazione la realtà. Non penso che nessun terapeuta di qualsiasi orientamento, faccia un intervento in cui si pone come possessore della verità. Un intervento di questo genere, non avrebbe niente a che vedere con l’approccio teorico di riferimento, ma solo con la patologia di chi lo mette in atto.

Secondo il mio parere, infatti, i due approcci hanno in comune molti aspetti. L’esempio che si fa sempre è quello dell’esercizio dato da una volta ad un’altra. E’ indubbio che alla fine di un gruppo quando viene fatta una restituzione finale, si lancia un esercizio, che anche se non verrà chiesto in modo esplicito la seduta successiva, in qualche modo riemergerà. In molte circostanze mi sono potuto accorgere di come i temi aperti in una seduta, venissero poi affrontati nella seduta successiva, anche senza che venissero richiesti, o comunque come certe tematiche fossero state fonte di riflessione nell’arco di tempo in cui non vi era stata la seduta.

Anche nei modi in cui avviene un gruppo analitico, si potrebbero vedere delle somiglianze con la stanza del terapeuta sistemico. Solitamente il gruppo analitico avviene in una stanza, ad una certa ora con una schematicità abbastanza rigida. Quello che avviene infatti è una situazione quasi sperimentale. I gruppi non devono essere molto grandi, massimo dodici, quattordici persone, c’è un tempo, e l’osservazione è molto rigorosa. Come dire solo in una situazione del genere si può creare una situazione ottimale perché si possano osservare certi fenomeni, come direbbe Bion.

La stanza del terapeuta sistemico è molto simile, e pur se un terapeuta è più coinvolto, dietro lo specchio, nella situazione ottimale, ce n’è un altro che osserva fuori dal setting, in una sorta di silenzio, facendo squillare il telefono, quando vuole fermare o far notare qualche meccanismo importante emerso. In questo appare molto simile all’intervento del conduttore gruppo analista, che evita che un assunto di base prenda il sopravvento. Molte volte questi interventi appaiono come la telefonata di un soggetto che pur dentro il gruppo ne rimane volontariamente fuori.

Su questo Bion (Bion, 1961) dice alcune cose.

“La mia tesi è che nella terapia di gruppo, molte interpretazioni, e tra queste le più importanti, devono essere date in base alle reazioni emotive dell’analista.” (Ivi, p.159)

Questo perché secondo lui essendo l’analista nel polo ricevente dell’identificazione proiettiva non può fare altro che dire ciò che il gruppo gli fa dire. Infatti spiega:

“Dal punto di vista dell’analista questa esperienza è costituita da due fasi strettamente collegate: nella prima c’è la sensazione che qualsiasi cosa si fosse fatta certamente non si sarebbe data l’interpretazione giusta; nella seconda fase c’è la sensazione di essere un tipo particolare di persona in una particolare situazione emotiva.
Ritengo che il primo requisito dell’analista nel gruppo sia l’abilità di scuotersi da dosso l’opprimente senso di realtà che si accompagna a questo stato; se egli ci riesce é in condizione di dare l’interpretazione corretta […]” (Ibidem)

Confronto con altri modelli terapeutici

Un confronto dal mio punto di vista può essere fatto con altri approcci terapeutici, come la Gestalt di Fritz Perls, la terapia cognitivo – comportamentale, ma anche lo psicodramma.
Per quanto riguarda quest’ultima, si fa riferimento al testo di G. Gasca (2012), che addirittura unisce i due punti di vista definendolo come “psicodramma gruppoanalitico”.
Scrive Gasca:

“L’essenza profonda degli psicodrammi che si definiscono analitici può essere indagata solo a partire dalla loro origine. Si tratta sempre di iniziative prese da persone che, avendo vissuto entrambe le esperienze, di analisi duale e di psicodramma, hanno cercato una via per integrarle tra loro. In genere però una delle due esperienze è sentita come predominante e caratterizza la visione del mondo, il riferimento teorico e la linea guida adottata, mentre l’altra viene ridotta a fornire degli aspetti tecnici che, isolati dal contesto che li aveva generati, perdono gran parte del loro significato essenziale.” (Ivi, p. 60)

Non è facile riassumere la visione di Gasca, e per ulteriori approfondimenti rimando al suo testo. Di fatto nel tentativo di integrare le due tecniche si potrebbe arrivare addirittura ad una terza tecnica che non ha più senso rispetto alle due precedenti. Condivido con l’autore il fatto che rispetto a due metodiche di cui un terapeuta fa esperienza, alla fine cerca suo malgrado di unirle in un insieme che però può essere a discapito talora dell’una, talora dell’altra ed in alcuni casi di entrambe le tecniche in origine.

Ciò che mi interessa dell’operazione fatta, però, è come l’autore abbia cercato di leggere la gruppoanalisi attraverso lo psicodramma e viceversa. Questa seconda visione è più vicina al mio modo di vedere le cose. Nel testo si leggono alcuni passi in cui la spiegazione della gruppoanalisi con termini non derivati dalla teoria di riferimento diventa più affascinante.
Un esempio possono essere i due passi seguenti:

“La tecnica gruppoanalitica ci appare assai più sfumata e difficile da definire che non quelle più attive proprie degli psicodrammi classici e degli psicodrammi analitici: comunque il suo tratto fondamentale appare il suo agire attraverso il gruppo.
[…]
Da un lato ci sembra che il conduttore, già con il semplice esserci, funga da garante del setting e della condizione liminoide, fin dalla fondazione del gruppo” (Ivi, pp. 70-71)

Il termine “liminoide”, sta ad indicare quei fenomeni che Gasca definisce propri di società più complesse e che tendono a contrapporsi ai valori della cultura dominante per modificarli e sono espressione di originalità individuale. Al di là dell’ultima definizione, è interessante ed anche molto esplicativo come viene spiegata la gruppoanalisi.

Più difficile potrebbe apparire un ponte teorico con teorie di stampo più cognitivista, soprattutto di area razionalista. Superate le difficoltà iniziali soprattutto del linguaggio, che nel tentativo di essere al massimo esplicativo, diventa criptico tanto quanto quello usato in testi di matrice psicoanalitica, ci si rende conto che alcune soluzioni possono essere molto in sintonia con il modello teorico preso fin qui in considerazione.
L’esempio è quello fatto in precedenza degli esercizi, tanto cari ai razionalisti, che come detto in precedenza, potrebbero tranquillamente assomigliare alla riflessione che si rimanda da un gruppo ad un altro, e qualcuno azzarda anche l’elaborazione dei sogni di alcune teorie psicoanalitiche. Non mi voglio soffermare oltre se non nella citazione di quello che Chiari e Nuzzo (Chiari & Nuzzo, 2005), scrivono riguardo al modello che secondo me è più vicino, anche da un punto di vista del linguaggio, a quello di questo testo e cioè quello costruttivista:

“Per gli psicoterapeuti costruttivisti i problemi riflettono i limiti attuali nelle capacità del sistema cognitivo (o, meglio, della persona), che d’altra parte cerca di salvaguardare la propria integrità e di resistere a cambiamenti nucleari troppo rapidi o sostanziali attraverso processi autoprotettivi. L’esplorazione dei significati personali, delle esperienze emozionali e delle modalità di relazione interpersonale all’interno di una relazione sicura, sollecita e intensa, quale è (o dovrebbe tendere a essere) quella psicoterapeutica, rappresenta il più importante strumento di cambiamento.” (Ivi, p. 25)

Lasciando lo psicodramma, ed il cognitivismo, come detto in precedenza possiamo avvicinarci ad un altra tecnica di gruppo e cioè il teoria della Gestalt.
Non spiego qui il funzionamento di tale tecnica, e qualche accenno verrà fatto più in là su come Perls considerava la nevrosi. La cosa interessante di questo tipo di tecnica è quella che io chiamo il lavoro sulla tensione.

Non vi è dubbio che in questo tipo di lavori, superando anche le singole tecniche quali sedia che scotta ecc…, il soggetto si trovi in uno stato di tensione permanente. Questo mi ricorda molto di più la gruppoanalisi di stampo bioniano, che lavora sulle tensioni, che quella di stampo foulkesiano che cerca di eliminarle. Va anche detto però, che lo scopo di questa tecnica è che il soggetto affronti la tensione e la superi, quindi potrebbe essere un integrazione tra i due modi di intendere il gruppo appena citati.

Oltre al testo scritto da Fritz Perls con altri autori (Perls, Hefferline & Goodman, 1951), mi sono avvalso dell’elaborato di Riccardo Zerbetto (Zerbetto, 1998), il quale in modo più sintetico descrive l’approccio gestaltico e ne traccia le tecniche fondamentali.
Egli individua quindici tecniche così riassunte: l’uso del tempo presente; la comunicazione diretta; l’assunzione di responsabilità intesa come abilità a rispondere; l’uso della prima persona; deenfatizzare la nozione di inconscio; il monodramma, detta anche sedia vuota; la catarsi emozionale, cioè lavorare su immagini, emozioni, vissuti corporei, gestualità; l’ologramma, o meglio l’emersione tridimensionale della gestalt emergente; la gestaltung, cioè cercare di far emergere con definizione più chiara ciò che è in uno sfondo indifferenziato, e secondo Zerbetto si acquista con l’esperienza terapeutica; la frase ripetuta; l’amplificazione; l’importanza del fenomeno e del linguaggio corporeo; l’esperimento, cioè sviluppare forme comunicative diverse da quelle usate di solito; correre dei rischi; il passaggio dal sostegno ambientale all’autosostegno.

Non entrerò nelle singole tecniche e in cosa sono simili e in cosa sono diversi dalla tecnica gruppoanalitica, non perché tale operazione sia di scarso interesse, ma perché dal mio punto di vista sarebbe del tutto inutile.
Infatti, se pensiamo al gruppo come normativo, si comprende subito come il soggetto che debba mettere in atto una di queste tecniche affronti le difficoltà dovute alla “normalità” del gruppo. Queste difficoltà lo portano ad affrontare con responsabilità le proprie problematiche, arrivando all’ultimo punto dell’elenco precedente e cioè “l’autosostegno”.
Questo aspetto mi serve come introduzione per parlare del prossimo paragrafo e cioè di come la terapia di gruppo possa essere utile anche nella terapia individuale.

Una visione per la terapia individuale

Sicuramente l’approccio bioniano, non può prescindere dalla terapia individuale, fra l’altro Bion studiò i gruppi per un breve periodo, ma in gran parte si è occupato di terapia individuale.
Ciò, che voglio fare qui però, non è tanto l’analisi di come Bion affrontava l’individuo come singola persona, nel suo approccio che potremmo definire psicoanalitico, bensì, come i concetti di gruppo possano essere riportati anche nella terapia individuale.
Bion (Bion, 1961) stesso scrive:

“Sotto questo aspetto nella situazione psicoanalitica non si deve vedere una “psicologia dell’individuo”, ma una “psicologia di coppia”.” (Ivi, p. 141)

123155_terapia-psicologica_fotoFichaPartiamo dagli assunti di base. Innanzitutto se si pensa ai tre assunti, dipendenza, accoppiamento, attacco – fuga, ci si accorge fin da subito che questi tre assunti, non sono solo i rischi che corre una terapia, od una situazione di gruppo, ma bensì sono rischi connessi anche alla terapia individuale.

Spiego meglio, i rischi principali a cui deontologicamente deve stare attento un terapeuta nel suo lavoro sono, per primo quello di non creare una dipendenza dal proprio paziente o del proprio paziente. La situazione di dipendenza è uno dei rischi più importanti, che non riguardano solo il procedere della terapia, ma anche come va avanti. Pensiamo a situazioni di terapie che non terminano mai, che diventano lunghissime, non tanto perché ce ne sia un vero bisogno, ma perché in qualche modo il terapeuta, oppure il paziente hanno necessità che la terapia prosegua per motivi diversi da quelli della domanda iniziale. Qui si potrebbero fare esempi come i soldi che il paziente porta al terapeuta, l’idealizzazione del paziente del terapeuta ecc…

In queste situazioni, un assunto di base del gruppo che ricordiamo per essere gruppo deve essere composto da almeno tre persone, si è impadronito della coppia terapeutica. Sorvolo sui concetti di leader e simili, per non rendere il discorso troppo pesante, ma sarebbe interessante analizzare anche questo, cioè su chi diventa il leader in una coppia del genere.
Un secondo problema deontologico, che diviene anche perseguibile, è quello dell’accoppiamento. Qui è banale dirlo, la coppia che non capisce cosa accade, cerca di unirsi, come direbbe Bion, per far nascere un “messia” che salvi i due da ciò che non capiscono. Non è una novità che in alcuni casi ci sia quella che viene definita come “mal pratice”, cioè terapeuti che hanno rapporti di altro genere con i propri pazienti. La storia della prima psicoanalisi è piena di questi eventi come riporta Mecacci (Mecacci, 2000) nel suo testo. Il problema di gestire il transfert erotico, è uno di quelli che mette più in difficoltà. Molte volte si cerca di trasformare un rapporto di lavoro che mira utopisticamente a raggiungere una sanità, in un rapporto che invece diventa altro, e piomba nella patologia.

Infine c’è il terzo assunto di base e cioè quello dell’attacco – fuga. In questo assunto emergono quelle emozioni che fanno sì che il terapeuta oppure il paziente, ma anche entrambi, cerchino di sabotare la terapia. Quindi attivino comportamenti che possono far emergere meccanismi difensivi verso tematiche scomode, che per certi versi non devono emergere. In questo caso, si tenderà a cercare il capro espiatorio di tale situazione, colpevolizzando magari il terapeuta, o magari il paziente, oppure entrambi.
Scrive Bion (Bion, 1961):

“[…] il capo riconosciuto di un gruppo che si trovi in questo stato mentale è quello che pone al gruppo delle richieste che possono essere percepite come occasioni di fuga o di attacco e che viene ignorato qualora le sue richieste non siano di questo tipo. In un gruppo terapeutico l’analista è il capo del gruppo di lavoro. L’appoggio emotivo di cui l’analista può disporre è soggetto a fluttuazioni a seconda dell’assunto di base attivo e a seconda che egli agisca in modo adeguato al ruolo che viene richiesto al capo in questi vari stati mentali. Nel gruppo attacco-fuga l’analista scopre che i tentativi di chiarire quello che sta succedendo trovano un serio ostacolo nella facilità con cui viene accordato un appoggio emotivo sia alle proposte che esprimono l’odio per tutte le difficoltà psicologiche, sia a quelle che indicano i mezzi per evitarle.” (Ivi, pp. 162-163)

In questo può diventare sintomo di difficoltà anche il modo in cui vengono affrontate certe tematiche che apparentemente sono affrontate, ma che poi rimangono così come sono.
Di diverso avviso è Lombardo (Lombardo, 2004) il quale nel suo approccio alla psicologia di comunità, fa una analisi dei si e dei no di un intervento individuale in una comunità terapeutica. Innanzitutto va sottolineato cosa dice riguardo il tipo di terapia da suggerire ad un paziente.

“Tutto questo ha importanza quando si deve decidere il tipo di terapia da suggerire ai pazienti. Balint viene in soccorso in questo caso quando asserisce che una buona psicoanalisi guarisce dalla nevrosi (nel nostro caso reimpasta le risposte automatizzate della matrice oggettuale originaria) ma non rende più maturi (le rappresentazioni negative del Sé, costruite intorno alla matrice negativa condizionano ogni tipo di relazione sociale).

Mentre una buona analisi di gruppo certamente rende più maturi (insegna competenze sociali e modifica le rappresentazioni negative di noi in relazione al gruppo di cui abbiamo bisogno per vivere bene) ma non guarisce dalla nevrosi (non cambia la rappresentazione di noi in relazione ai rapporti intimi significativi individuali).
Nella riabilitazione psichiatrica che mira all’integrazione della persona malata e allo sviluppo di competenze di vita in un gruppo sociale, l’approccio di gruppo a nostro avviso è da preferire.” (Ivi, p. 166)

Pur se condivido in gran parte quello che viene detto da Lombardo, soprattutto riguardo alle diversità fra i due tipi di tecnica, la mia visione cerca di creare un ponte che miri non solo a rendere meno nevrotici, ma anche un poco più maturi.
Questa visione infatti, assomiglia più a quella gestaltica di Fritz Perls (Perls, Hefferline & Goodman, 1951), il quale suggerisce come la nevrosi secondo lui sia uno stop nel processo di crescita. Nella sua prefazione al testo scrive:

“Io adesso credo che la nevrosi sia solo uno dei molti sintomi della stasi nella crescita, e non una malattia.” (Ivi, p. 24)

Inoltre in uno dei suoi passaggi aggiunge:

“Analogamente, la psicologia anormale è la scienza che studia le interruzioni, le inibizioni e gli incidenti di altro tipo che si verificano nel corso dell’adattamento creativo. Ad esempio, esamineremo l’angoscia, elemento che pervade la nevrosi, come risultato dell’interruzione dell’eccitazione nella crescita creativa (questo fenomeno si accompagna in genere ad una mancanza di fiato; ” (Ivi, p. 41)

In un certo senso, dal mio punto di vista nella terapia individuale, si può cercare di responsabilizzare il paziente, nel tentativo che cercando di attivare un processo maturativo, il soggetto possa in qualche modo superare la propria nevrosi, se così si può definire. Ovviamente questo non è un procedimento matematico, e tutto dovrà sempre essere rivolto alla risposta della domanda iniziale, però nel mio modo di operare di solito cerco di partire da questa modalità.

Quindi nella terapia individuale, o come direbbe Bion di coppia, si possono utilizzare tutti quegli strumenti che di solito fanno parte della terapia di gruppo, non tanto perché questi siano migliori o peggiori, ma bensì perché per qualche verso possono essere considerati un ampliamento ad una visione che si basi su tecniche solo individuali. Nel mio modo di operare comunque, non applico in modo selvaggio tecniche gestaltiche, abbinate a tecniche analitiche, o psicodrammatiche. Solitamente pur mantenendo un atteggiamento silenzioso e di ascolto, in un certo qual modo mantengo dentro di me tutta l’esperienza maturata nei gruppi, e faccio sì che questo diventi un ulteriore strumento per ascoltare meglio.

Vorrei aggiungere un ulteriore spunto di riflessione che riguarda quella che Goleman (Goleman,2006) chiama intelligenza sociale, che amplia il concetto di intelligenza interpersonale della teoria delle intelligenze multiple di Gardner (Gardner, 1983).
Ricordando che Gardner, suggerisce come le intelligenze personali possano essere di due tipi e cioè quella interpersonale e quella intrapersonale, riprese poi da Goleman, nei suoi testi sull’intelligenza sociale e su quella emotiva (Goleman, 1995), posso affermare come questi concetti siano molto importanti anche dal punto di vista terapeutico.

Perché, se è vero che essi appartengono più ad un quadro teorico, sembrerebbero dimostrati, come dice lo stesso Goleman, anche dalla ricerca sui neuroni specchio e sulla propensione dell’essere umano ad essere empatico. Non entro nel merito della ricerca e rimando al testo di Rizzolati e Sinigaglia (Rizzolati & Sinigaglia, 2006). E’ senza dubbio stimolante notare come anche a livello teorico le intelligenze sia verso di sé, che verso l’altro vengono analizzate in modo sì diviso, ma che parte da un piano comune.

Vedi anche:

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (1a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (2a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (3a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (4a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (5a parte)

Bibliografia.

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