L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (5a parte)

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Autore: Dott. Nicola Gentile

In tutte le precedenti parti si è sotteso un aspetto abbastanza importante, cioè chi è che cura in terapia? Ma soprattutto cosa vuol dire cura? Nella mia visione io “non curo” in terapia, ma bensì applico una metodica che in alcune circostanze può portare ad un cambiamento. Questo concetto, infatti dal mio punto di vista è molto importante. Il non fare niente che in fondo è anche fare qualcosa, dal mio punto di vista diventa il non curare che forse può anche essere curativo. E’ la famosa possibilità in più che un terapeuta si dà. Molte volte rispetto a delle metodiche che si prefiggono lo scopo di essere più o meno terapeutiche ecc… io tendo ad avere qualche dubbio.

cieloLa mia idea, che sicuramente fa riferimento a più autori che ho letto, ma che non saprei dire da chi ho preso, è che il corpo si cura sempre da sé. Il medico, e nel mio caso il terapeuta, applica solo una tecnica che per quanto perfetta, va ad interagire con un corpo che a sua volta decide se rispondere o no. Come dire è il corpo che si cura, non la metodica che adotto. Ovviamente questa visione estrema, io la riferisco a quello che chiamo “delirio di impotenza”, contrapposto al classico “delirio di onnipotenza” del medico. Analizzando il concetto di cura infatti si potrebbe rovesciare la cosa, dicendo che in realtà il medico, prendendosi “cura” di un corpo, cura, quindi fa qualcosa che senza il suo intervento non sarebbe possibile.

E quindi torniamo al punto di partenza. Chi è che cura?
Da un certo punto di vista questa contrapposizione tra due aree deliranti, potrebbe ricordare la classica visione di M. Klein tra una posizione schizo – paranoide ed una depressiva.
Bion (Bion, 1970) riguardo a tale argomento spiega come:

“Il parallelo con la medicina è stato ed è ancora utile. Ma, via via che la psicoanalisi cresceva, diveniva evidente che essa differiva dalla medicina, fino a che la distanza tra le due ha cessato di essere ovvia ed è diventata invalicabile.” (Ivi, p. 13)

Ed aggiunge:

“In medicina può darsi il caso che il paziente abbia un dolore al petto e perciò vada dal dottore al quale spiegherà la natura e la storia della propria sofferenza e dal quale potrà ricevere il consiglio di sottoporsi ad ulteriori esami, ad esempio ai raggi X o ad esami microscopici, o di sottoporsi a determinate forme di cura. […]
Il medico e lo psicoanalista si rassomigliano nel ritenere che la malattia debba essere riconosciuta dal medico; ma in psicoanalisi questo riconoscimento deve avvenire anche ad opera del sofferente.” (Ivi, pp. 13-14)

terapiaPiù o meno questa idea è diventata mia, e l’ho esposta in tutte le precedenti parti. Inoltre come si può capire da quello che ho scritto, difficilmente cerco di confrontare singole tecniche terapeutiche fra diversi approcci, perché dal mio punto di vista, è impossibile estrapolare una tecnica dal suo contesto teorico. In questo sono poco integrato. Ritengo però che l’essere a conoscenza di più tecniche, mi dia la possibilità di non sentirmi in imbarazzo di fronte a situazioni che vengono affrontate in modo diverso a seconda dell’approccio. Anche perché come ho spiegato per me le diversità tra le varie metodiche si possono avere solo ad un livello superficiale di conoscenza.

Molte volte mi è capitato di leggere critiche ad un approccio, oppure ad un altro, ma se si analizzano le critiche ci si rende conto che in realtà la metodica eseguita, non era corretta. Il classico è quello dello psicoanalista che esegue una tecnica in modo errato anche per la psicoanalisi, ma che però viene letta da un altro esponente teorico come poco produttiva perché appartenente alla psicoanalisi.

Il caso che ho in mente è quello riportato da Annie Gruyer (2005), la quale dopo sette anni di psicoanalisi ha trovato giovamento per un suo sintomo solo con una terapia cognitivo – comportamentale. Non riporto il caso perché sarebbe troppo lungo, ma leggendo la diversità tra i due approcci, ci si rende conto che la psicoanalista, che aveva fatto l’analisi, si era persa in mirabolanti interpretazioni, che molto probabilmente giocavano più sul suo narcisismo che non sui bisogni sintomatici della paziente. Il terapeuta cognitivo – comportamentale, non aveva fatto “niente” di tutto ciò, lavorando semplicemente sul sintomo. Leggendo il caso ci si rende conto che la richiesta fatta dalla paziente era di essere aiutata ad assumersi la responsabilità di abbandonare il sintomo.

Nella seconda terapia questa cosa era avvenuta, non tanto forse per la tecnica che aveva lavorato solo sul sintomo, ma molto probabilmente per il clima rassicurante che si era creato. Come dire le tecniche contano, ma contano meno di quello che si possa pensare. In questo caso, penso che anche uno psicoanalista si sarebbe reso conto dell’intervento errato, anche per un approccio più analitico. Oppure si potrebbe obiettare che l’intervento analitico era andato talmente bene, che il successivo intervento comportamentale, aveva solo proseguito nel percorso. Ed anche che la paziente che era cresciuta in età rispetto al primo intervento aveva maggiore propensione al cambiamento.

Ed infine guardare al rapporto che si era instaurato fra paziente e terapeuta nei due casi. Quindi quanto contano le tecniche?
Si potrà notare il pericolo dell’addentrarsi nelle singole tecniche teoriche in quanto, come ci si avvicina ad una tecnica si incomincia ad usare anche quei termini come “errato” e “non corretto”.
Se rimaniamo nel tema delle tecniche posso dire che non ritengo che in terapia vi sia qualcosa di “giusto”, ma bensì che il terapeuta, debba fare qualcosa che conosce, senza avventurarsi in mirabolanti interventi alla “Premio Nobel”.

L’aspetto creativo, infatti, per me deve partire dalla conoscenza, e non da interventi “naif”, che si basano su non conoscenza. Solitamente, per qualche assurda ragione si pensa che la creatività non derivi dalla conoscenza, eppure se si pensa a campi diversi dalla psicologia, ci si rende conto che i grandi creativi e gli innovatori conoscevano talmente bene la loro materia, da poter aggiungere un pezzo che fino ad allora non era conosciuto.
Perché se è vero che in terapia non si può, e neanche si pretende di sapere tutto, sarebbe buona regola ed anche educazione cercare di sapere abbastanza. Questo potrebbe apparire in contrasto con un altro principio che è quello dell’assenza di memoria e di desideri, ma dal mio punto di vista la conoscenza deve servire per fare un ascolto attento, non per modificare le proprie “intuizioni”. Lo stesso Bion (Bion, 1962) nel suo testo descrive uno griglia, che però deve facilitare la ginnastica mentale e preparare al contatto con il paziente.

D’altronde è una mia idea e va contro il principio per cui tutto questo è illusorio, in quanto lo stare in terapia, cioè l’esserci è già qualcosa che funziona. Un po’ come il gruppo che non comincia mai, ma si osservano dei fenomeni e delle attività che continuano e si evolvono ma “non cominciano”. Detto ciò ritorno alla idea iniziale, del perché sia interessante la prospettiva di non fare niente, che comunque è già fare qualcosa.
Questo in fondo è ciò che più mi ha affascinato nell’approccio di Bion, che poi ho ritrovato anche nella metodica comunitaria. E in tutte le precedenti parti ho cercato di riassumere, confrontandolo anche con altre tecniche terapeutiche come l’approccio sistemico, o quello gestaltico. Come ho già accennato, non è stata mia intenzione confrontare le tecniche, ma osservare come tutte abbiano un punto d’arrivo comune.

Vorrei aggiungere un’ulteriore considerazione. In tutti i testi che ho utilizzato per scrivere questo elaborato, ho trovato citazioni riguardo al bisogno di supervisioni, per far sì che la terapia individuale, o di coppia intesa alla Bion, in alcuni casi proceda meglio. Di solito tale bisogno emerge quando il terapeuta preso dal turbinio emotivo, tende a fare qualche agito, o comunque perde di vista la domanda iniziale. Tutti gli autori a questo punto parlano dell’importanza del gruppo rispetto alla terapia individuale, ponendo quindi la supervisione come modello terapeutico in cui per certi versi ci si richiama al gruppo, e quindi mettendo questa soluzione come migliore in situazioni più gravi.

Questo punto secondo me è molto interessante perché pone l’accento su come anche la terapia individuale, in alcuni casi possa essere considerata di gruppo. Come ho avuto modo di accennare in precedenza, dal mio punto di vista, i due modelli in realtà non sono molto distanti ed in molti aspetti sono sovrapposti.

In conclusione, Bion con i suoi colleghi, hanno aperto una strada, usando un linguaggio che può essere facilitante per alcuni, e scomodo per altri. A sua volta la tecnica comunitaria, può avere sia aspetti positivi che negativi. Come ho sempre detto in comunità:

“Vi viene messa a disposizione questa struttura sia in senso materiale che non, che voi potete utilizzare oppure no. E’ una vostra libera scelta.”

LEVI-MONTALCINI

Questa cosa, io la applico anche in terapia di “coppia”, individuale. A conclusione di questo testo posso solo dire che ognuno può prendere da quello che ho scritto quello che più gli fa comodo oppure rifiutare tutto, ed anche in questo caso è una “libera scelta”.
Inoltre aggiungo una frase di Rita Levi Montalcini (Levi Montalcini, 1988) che nel suo testo scrive:

“Il fatto che l’attività svolta in modo così imperfetto sia stata e sia tuttora per me fonte inesauribile di gioia, mi fa ritenere che l’imperfezione nell’eseguire il compito che ci siamo prefissi o ci è stato assegnato, sia più consona alla natura umana così imperfetta che non la perfezione.” (Ivi, pp. 13-14)

 Vedi anche:

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (1a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (2a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (3a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (4a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (5a parte)

Bibliografia.

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– Bion, W.R. (1962). Learning from Experience. Londra: William Heinemann – Medical Books, Ltd. [Apprendere dall’esperienza (1972). Roma: Armando Editore]

– Bion, W.R. (1970). Attention and Interpretation. A Scientific Approach to Insight in Psycho-Analysis and Groups. Londra: Tavistock Publications, Ltd. [Attenzione e interpretazione (1973). Roma: Armando Editore]

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– Ugazio, V. (1998). Storie permesse. Storie proibite. Polarità semantiche familiari e psicopatologie. Torino: Bollati Boringhieri.

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– Zerbetto, R. (1998). La Gestalt. Terapia della consapevolezza. Milano: Xenia Edizione.

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